mercoledì 27 ottobre 2010

martedì 19 ottobre 2010

i nuovi mostri in prima pagina

La curiosità morbosa che esorcizza il male

Ma perché la gente vive con morboso accanimento la brutta storia di Sara e della famiglia Misseri? Sbiadiscono perfino le guerre dei giudici, le inchieste sul premier, i dossieraggi, al cospetto della tragedia di Avetrana.
Sarebbe facile e sacrosanto imbastire un bel processo accusatorio alla tv del dolore, agli sciacalli del video, gli esibizionisti dell’orrore, i grilli parlanti e le iene piangenti.
Aggiungete poi la vergogna del pellegrinaggio di domenica scorsa alla casa dei mostri, una specie di luna park degli orrori.
Sarebbe poi facile notare che tra tanti delitti feroci, ce n’è sempre uno che diventa racconto di massa, saga televisivo-popolare, tormentone mediatico. La Franzoni o la Cesaroni, Erika o Amanda, dimostrano che è l’attenzione mediatica, l’esposizione in tv a rendere il caso esemplare e proverbiale.
E si creano cittadelle dell’orrore, ieri Cogne oggi Avetrana, a dimostrazione che anche la ferocia o la follia non hanno connotati etnici o geografici.
Io invece vorrei proporvi un’altra riflessione. L’umanità ha bisogno di spiegare il male, di confrontarsi con il dolore più atroce, di superare la soglia per vedere dove si nasconde l’orrore.
Ai colti basta leggere Seneca o Sant’Agostino, interrogarsi sul concetto del male e del dolore.
Ma la gente comune coglie il male e il dolore attraverso gli esempi, i casi concreti, la vita di ogni giorno.
Anche Gesù non parlava per concetti ma per parabole, narrava esempi, affrontava singoli casi di malattia e di guarigione, di morte e di resurrezione, per farsi capire.
L’uomo ha bisogno di conoscere storie del male, la grande letteratura è concentrata sul male e sul dolore, a cominciare dalla tragedia greca.
Potete maledire finché volete la tv e i giornali che vi parlano del male e delle disgrazie: ma un aereo che cade fa notizia, diecimila aerei che volano no; Sara che esce con sua cugina non fa notizia, Sara uccisa e stuprata dai suoi famigliari sì.
Trentatré minatori che tornano la sera a casa non fanno notizia, se restano sottoterra per un’infinità di giorni sì. E a loro proposito, la miseria dell’informazione non è stata l’accanimento spettacolare nel seguire la vicenda, ma la banalità di paragonare la loro epopea ai reclusi volontari del Grande Fratello e non ai prigionieri platonici del mito della Caverna o magari alla considerazione che il loro tornare alla luce sia stato come una seconda nascita, dopo una gravidanza pericolosa nelle viscere oscure di Madre Terra.
Critichiamo pure, e giustamente, tutte le esagerazioni, ma non dimentichiamo che alle origini di tutto questo c’è un bisogno innato dell’uomo, la paura del male e la voglia di addomesticarlo, di vederlo in faccia, di viverlo attraverso le esperienze degli altri per esorcizzarlo, per scaricarlo da sé, per sentirsi immuni.
Non ha colpe particolari la tv che ha dato così grande spazio a Sabrina (un nome che a giudicare dall’età sembra anch’esso pescato dalla tv, nata quando impazzava Sabrina Salerno). Non si può giudicare col senno di poi la tv - questa entità magica tra il divino e l’infernale - che ci ha mostrato fino alla nausea Sabrina; la tv non poteva sapere in anticipo quel che poi si è scoperto. E anche la stessa ragazza, che si preoccupa di quel che si dice in tv più che in tribunale, è la versione moderna del paese è piccolo e la gente mormora, o, se vogliamo dare una formulazione più alta, di vox populi vox dei.
È inaccettabile il filo ideologico emerso a ridosso della storia di Sara. Dal coinvolgimento di padre e figlia, e dai casi di violenza sessuale perpetrati gran parte delle volte in famiglia, c’è chi ha dedotto la solita moralina immorale: questa è la famiglia, il luogo degli orrori.
Si perde come spesso succede, la distinzione tra l’eccezione e la norma. Per una famiglia abitata da mostri ce ne sono mille fondate sulla dedizione, l’amore, il sacrificio. Tra i venti milioni di famiglie italiane ce ne sarà qualche migliaio abitata da mostri, magari coperti dall’omertà familiare, e ve ne saranno svariate fondate sulla sopraffazione, la violenza, l’abuso.
Ma la stragrande maggioranza delle famiglie sono il rifugio sicuro, la protezione primaria, la casa degli affetti, il luogo dell’autenticità in cui siamo veramente noi stessi, che nessun’altra realtà sociale può neanche vagamente sostituire. Poi ci sono tante famiglie sfasciate o in crisi permanente, separazioni a grappolo, genitori latitanti e figli debosciati.
Ma la famiglia tradizionale non è il museo degli orrori, come la metropolitana non è il luogo in cui si prendono cazzotti mortali, solo perché è accaduto a una povera infermiera romena. Si scambia la vita di ogni giorno con l’orrore di un evento; si creano muri di diffidenza tra milioni di persone solo perché sparute minoranze abusano della propria libertà.
Certo, c’è bisogno di misura e di sobrietà, c’è bisogno di responsabilità educativa nell’uso dei media, sapendo che il mezzo non è neutrale e se non educa, diseduca. Non va lasciato a se stesso e alle regole del commercio.
C’è bisogno di una tv più diversificata in cui accanto al becero gossip del dolore vi sia anche chi colga l’umanità, tragga riflessioni più alte, sentimenti più nobili e usi le tragedie per far crescere un popolo, senza assecondare la sete di sangue.
Personalmente non guardo i programmi del dolore, detesto le lacrime in diretta e la disperazione rubata al volo dalle telecamere e provo un leggero ribrezzo per gli specialisti della tv del dolore. Ma riconosco che questi riti collettivi sono forme di partecipazione e catarsi comunitaria, e possono essere risposte di civiltà alla barbarie e non l’inverso.
Sin da quando siamo bambini abbiamo bisogno di capire dove si nasconde l’orco, abbiamo necessità di dargli un volto e di delimitarlo in un confine, in un luogo, in un volto.
Perché siamo miseramente, imperfettamente e splendidamente mortali.

(N.d.B.: grassetti e corsivi sono mie sottolineature, non presenti nell'articolo originale)

domenica 17 ottobre 2010

it's the end of the world as we know it (but I don't feel fine)

Domenica, ore 8,20 circa.
Una mattina surreale.
Fuori piove; dentro è tutto buio e silenzio.
Alle 7,40 hanno tolto la corrente, la ripristineranno alle 10.
E così, anche stamattina, anche se è domenica, sveglia all'alba, anzi prima, per riuscire a fare colazione, lavarsi e scendere dai mici in garage dove, per fortuna, c'è un neon d'emergenza che si attiva in casi come questo.
Surreale, appunto.
Perché senza corrente elettrica sono davvero poche le cose che si possono fare.
In una vita felice la cosa più normale sarebbe tornare a letto, al caldo, tra copertine e gatte ronfanti.
Ma non in questa; tanto più che, di là, c'è un detestabile essere che russa beato il suo menefreghismo in faccia al mondo e che, anche stanotte, ha contribuito a disturbare il mio fragile e quanto mai precario sonno.
Quindi sono qui, a scrivere, sul mio libretto nero dei pensieri amari, seduta davanti alle finestre della sala che, orientate a sud, lasciano entrare una debole luce grigiastra che rende tutto molto simile ad una foto in bianco e nero.

E in questa atmosfera insolita, in cui tutto viene ridimensionato alla mancanza di energia luminosa normalmente sottintesa, in cui ogni gesto automatico, come premere un interruttore, perde il suo ovvio significato quotidiano, penso a come sarebbe se, quella trascorsa da poco, non fosse stata solo l'ultima mezz'ora di corrente, ma quella della vita del mondo in assoluto: e questo buio la sua fine.
30 minuti per raccogliere tutto il possibile, per salvare quel che si può, per portarsi via (ma dove?) qualcosa che protegga dalla paura di morire.
30 minuti per decidere a chi telefonare, a chi dire, mai abbastanza, "ti voglio bene", per salutare qualcuno che non si fa vivo da troppo tempo, così tanto da averne quasi dimenticato viso, voce, odore.
30 minuti per pensare a cosa fare "dopo": ammesso ci sia, quel dopo.
30 minuti per accorgersi troppo tardi che tutto è importante, quando sta per essere perduto per sempre.
30 minuti passati in fretta. Troppo in fretta.
3, 2, 1...
Addio.
Buio.
Silenzio.
Fine.

sabato 16 ottobre 2010

vagoni e puzzle


Certe persone sono come treni.
Pur tra tante difficoltà, riescono ad intraprendere il loro viaggio e si arricchiscono ad ogni stazione che incontrano.
Invece io mi sento come un vagone vuoto, fermo, su un binario morto, in attesa che la ruggine mandi in polvere ciò che sono.
Mi sento dire che ho ancora una vita davanti.
Ma mi chiedo: e chi lo dice questo?
La statistica, forse?
O piuttosto la consuetudine, il luogo comune, secondo i quali, passati i (primi) quarant'anni della propria vita, ad ogni essere umano ne spettino, mediamente, altrettanti, giusto il tempo di sistemare ciò che si è andati tracciando nella prima parte dell'esistenza?
A me non sembra così scontato.
E, quand'anche fosse così, più o meno per tutti, quindi, anche per me, come ignorare che, nei prossimi, eventuali, quarant'anni non avrò più la forza, né l'energia - già comunque scarse entrambe fino ad oggi - della prima parte della mia vita?
E come poter escludere, a priori, nel "qui ed ora" - che è tutto ciò che ho- che il mio destino, o comunque lo si voglia chiamare, non debba necessariamente riservarmi chissà quali splendidi traguardi, cambiamenti significativi o grandi soddisfazioni?
Ferma e vuota, ecco come mi sento; credevo di fare parte di un "tutto", di un "qualcosa" cui, oggi, non appartengo più.
E così resto qui, ad aspettare.
Ma non so neanch'io bene cosa.
A pezzi, come un puzzle, messo insieme senz'alcuna cura, dove qualche tessera è stata anche spinta dentro a forza: perché è chiaro che, quello, non è il suo posto.
Un puzzle che sembra compatto, ma è tenuto insieme da una debolissima colla; e basterebbe un soffio di vento leggermente più forte, un colpo, un pugno sul tavolo: e tutti i pezzi finirebbero all'aria.
Un tempo quella colla era la speranza.
Ora, forse, è solo la gravità.
O la stanchezza che, in qualche modo, tiene attaccate tutte le piccole parti, i vari cocci in cui sono stata frantumata.
E, a guardar bene, ci sono parecchi spazi vuoti.
Il "mio" quadro è tutt'altro che completo.
E chissà se lo sarà mai.